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84b (1)
01:20
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Klaus Brunnen: interpolazioni, chitarra
Giacomo Anderle: voce
Ariadne Radi Cor: voce, piano
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2. |
84b (2)
02:41
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(2)
Nel 1984 eravamo un anno prima di noi stessi.
Eravamo l’anno prima di un’idea, senza ancora vagire
stretti in un antro destinato ai libri che avremmo potuto scrivere,
stretti nella speranza li avremmo imparati a leggere.
Eravamo l’unica cosa da fare: un bambino.
Nel 1984 non c’era spazio per separarsi.
Respiravamo poco, baciavamo per guadagnare spazio
ed eravamo piccoli al punto da fare in due un uomo soltanto.
E quell’uomo solo viveva del nostro bacio
era lui ad essere spinto in vita nel numero di zero,
a guardarsi dire poche cose immemorabili e senza spazio
a venire meno al mondo e mancare le promesse
a dire che avrebbe scritto, e a non averlo mai fatto.
Ritrovare una vecchia caramella in un cappotto
avrebbe dovuto ricordarci qualcosa, il passato o il futuro.
Avremmo dovuto fare una sola cosa -nascere e mangiare caramelle-
e non l’abbiamo fatta. Le carie non sono di parola.
Con la canfora e con i buchi, stipati in nostra madre, un baule rosa
non avremmo potuto uscire, non sapevamo come capire.
Tutto ciò che accadde lo abbiamo dimenticato sul nascere, in sala parto,
al secondo piano di un cielo di cartone.
Tutto era già accaduto, giù per terra, in un giardino di un paese russo
girato a colori freddi attorno alla pancia delle matrioske.
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3. |
84b (3)
02:42
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(3)
Prima della sala parto suonava una suite incisa con un dito
fuori dal baule; qualcuno suonava sopra nostra madre,
qualcuno al pianoforte. Quel compositore suonava
36 settimane per volta, per ogni bambino.
E noi restavamo dentro ad aspettarne altri
e nostra madre faceva suonare la stessa traccia
per non perdere le orme del proseguimento
ed arrivare a sera senza smarrire il punto da cui era partita
a cui non sarebbe ritornata.
Una volta fuori, non avrebbe suonato più la stessa traccia.
Non abbiamo ricordato come continuare a contare.
Avremmo lasciato una donna per un’altra domanda,
una qualsiasi, disperati, scomodi ed innocenti.
Abbiamo lasciato tutte le domande senza parole,
le donne erano lì intorno perché fosse posto loro un quesito
poi ci guardarono semplici, asserendo che poteva darsi.
Potevano darsi Viola, Luise, Rosa e le altre, ma nessuna poté.
Nessuna arrivò a raccontare una risposta
prima di farci addormentare.
E noi non potevamo rimanere svegli senza giocare a bambole.
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4. |
84b (4)
00:57
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5. |
84b (5)
01:16
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(5)
Non sapevamo leggere, non sapevamo nulla
e lo continuavamo a scrivere. Era l’altro mondo
quello in cui il passato vagheggiava senza lettura
in quell’unica copia - la nostra coppia-
che non potevamo leggere e che nostra madre teneva
dentro la pioggia della sua pancia.
Concepito a Kiev, l’uomo solo che siamo
non riesce a stare seduto per via degli spasmi
ora che è tardi per imparare a suonare
e arrivare dove siamo partiti.
Tardi per nascere e toccarmi la schiena con la tua.
Tardi per ricordare come stare in equilibrio sulla dorsale della vita
negli abissi siamesi del grembo.
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6. |
84b (6)
02:11
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(6)
Lungo la strada il passato continuava ad accadere al condizionale
ed un uomo solo guidava verso la sua data di nascita
ripensando a tutte le sue domande,
tracciandone le iniziali sullo specchio appannato
guardandole dissolvere come donne lungo il tragitto di una goccia
che dall’alto cola nella condensa e si porta via
il mondo fino allo scarico.
Dove erano finite tutte le signorine passate
come condensa appena torna freddo, in un vapore pulito
che strucca gli effetti speciali.
In quel vuoto restavo solo di fronte allo specchio
quando lei, l’ultima, era evaporata via pulita.
Un giorno si chiamava Margherita.
Un giorno l’avrei raccolta da terra.
E mille altre volte le avrei fatto cadere i petali
uno ad uno, affievolendola con la siccità dei miei dubbi
se l’amassi o non l’amassi.
E lei restava a terra nel numero pari dei petali di fiori
destinati a non essere: era la matematica dei petali
e Margherita era perfetta, simmetrica: riusciva sempre pari.
Due più due faceva due, tre più tre le faceva due
ed io e te le facevamo male.
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7. |
84b (7)
01:47
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(7)
Non sapevo come amare Margherita.
Usciva solo per andare ai giardini
la chiamavo per nome all’uscita del parco
le urlavo “Ma”. Lei non sentiva.
Diceva non c’era nulla da capire, erano solo dei colpi
un battipanni al cuore.
A volte non la sentivo respirare
a volte dall’altra parte del cavo sembrava non esserci il telefono
a volte dimenticavo: non avevo più tempo
e non avrei avuto nemmeno Margherita.
Eppure c’era stata, a colpi di altalene:
se non era in cielo era a terra.
C’era stata, recisa nei giorni contati
dentro un vaso di acqua e aspirina
dentro la vasca da bagno che appannava il futuro allo specchio
dentro le ipotesi e le altre domande.
C’era sempre anche Margherita
recisa nel cordone che la piantava a terra
calpestata con le aiuole, nascosta sotto la frangia
a pensare alle geometrie dei giardini.
Ed io sono trascorso dentro l’ultimo parco
a far cadere le foglie dietro il mio peso di zucchero
a piegare l’erba sotto le suole. Quella era la traccia per seguirmi
e saper tornare alle favole, eppure Margherita
mi avesse anche amato, non mi avrebbe aspettato
ed io non parlavo
uscivo dal parco dimenticando ogni primavera.
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8. |
84b (8)
01:43
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(8)
Non ricordo più nulla. Ero un proposito senza peso
appena 21 grammi per respirare, comunque la tara di nient’altro.
Non rimanevo, non avanzavo. Ero appena cominciato
da una donna e da quei suoi momenti di noia passati a contare
i secondi agli uomini
per fare in tutto un minuto di bambini, uguali tra loro.
Senza margherite non conta il giardino.
Dopo una corsa che si era chiamata amore
dopo mazzi di fiori rossi a riempire le falle
dopo tutto perde acqua il sorriso che le tampona le guance.
Non credo più di essere un bambino
ero di Margherita, l’ultima matrioska
la bambola che abitava in città e mi proteggeva dal freddo.
Eppure l’amore si sperpera in un’impostura
e Margherita in un altro giardino. Dove sei stata Margherita.
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9. |
84b (9)
02:06
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(9)
Margherita amava i fiori coi petali dispari
perché “amavano, non amavano, ma poi amavano di nuovo”
e così contava gli uomini dispari che l’avevano vista frusciare
in città dentro la mattina verso commissioni futili
che l’avrebbero tenuta bagnata fino a sera
per non piegare la testa e vedersi recisa e perduta
nel bicchiere della sua pancia.
Siamo pari Margherita, ti ho amata un petalo solo
l’altro non ti amavo già più: sei finita dentro altre raffiche
altri giardini, a farti recidere con le stagioni
a perderti nel riavvolgimento dei prati.
Con chi sei stata Margherita?
Margherita e i tacchi non erano mai andati lontano:
si erano tenute a vista, in vita nel quartiere più piccolo
a passi stretti sulla città di ghiaccio:
erano restati in zona a pensarsi, spaventati dalla miopia dell’orizzonte
considerando i cancelli del parco dove finiva la vita del giardino e così la loro.
Era tutta lì Margherita, sullo stelo delle scarpe in mezzo ad altre margherite,
a girare in punta di pancia come un mulino a vuoto
piena di chimere elettriche e barbagli, a fare luce alla clorofilla.
Margherita avrebbe voluto poter dire sempre
fermare le altalene e ricominciare tutto da un giardino, dire la verità:
non porta da nessuna parte la tua camera da letto.
Avrebbe voluto entrare vestita nel mondo senza rumore
senza contare, a chiedere nulla
a far bastare un bicchiere d’acqua per non bruciare.
E tornare indietro sulle rughe teleferiche
che le mandavano gli occhi sul viso fuori a vedere che cosa le era accaduto,
quanti anni erano stati e quanti uomini.
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10. |
84b (10)
02:52
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(10)
Prima delle teleferiche, quando era una signorina
e pesava come un mazzo di fiori di campo e di niente,
si riconciliava con gli insetti e trovava più vento in uno scarabeo
che in una capitale.
Tutto le era più piccolo, le estati minuscole
i girotondi d’infanzia erano rivoluzioni al centro dei campi;
non pensava alla caduta delle stelle fisse, non aveva espresso altri desideri.
Voleva solo un giardino e buttarsi in un prato a farsi venire gli occhi verdi.
Ma ora un uomo è venuto a contarla e tutto era più largo, le sere più lunghe
le stelle cadenti e lei chiede ancora, quanti bambini vuoi?
Con gli occhi verdi e i tacchi sporchi d’erba,
a braccio come un fastello di paglia, un fuoco breve,
Margherita avrebbe riso della sua durata – e della mia vita.
Intanto le regine duravano un regno soltanto
e non c’era tempo per temere le api.
Sarebbe dovuta entrare dal giardino a fare la fata,
subito sempre e rimanere a memoria.
Invece Margherita tornava a terra come le altalene un istante dopo il cielo.
Avessi saputo che il tardi era ora e il dondolio della spinta l’avrebbe portata
lontano di nuovo, le avrei detto di venire dentro, finire in acqua, finire tutto
senza contare, nuotare senza respirare.
Fuori dall’acqua non restò nulla di intatto.
Non restò nemmeno Margherita.
Se ne andava nel momento in cui doveva venire da capo,
aspettare me, e ricominciare tutto dal mio giardino.
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